
Carlo Carrà, Sintesi di una partita di calcio, 1934. Olio su tela, cm 100 x 69. Roma, Galleria d’Arte Moderna. Foto: PaviaFree.it
Carlo Carrà (Quargnento, 11 febbraio 1881 – Milano, 13 aprile 1966) è unanimemente considerato uno dei più importanti pittori italiani della prima metà del Novecento; come altri artisti degli ultimi centoventi anni non rimase estraneo al tema calcistico. Il dipinto che prendo in esame in questo post fa parte delle collezioni della Galleria d’Arte Moderna di Roma; di solito è citato col titolo di Partita di calcio, ma in questa sede preferisco usare il più elaborato Sintesi di una partita di calcio perché così fu presentato alla Seconda Quadriennale di Roma del 1935, l’unica mostra in cui fu esposto mentre il suo autore era in vita. La concezione e la realizzazione di quest’opera sono connesse a un evento sportivo d’importanza internazionale; mi riferisco ai mondiali di calcio del 1934, organizzati in Italia e vinti – com’è noto – dagli azzurri guidati da Vittorio Pozzo.
Nel 1934 Carrà era un artista affermato, che alle spalle aveva una carriera più che trentennale caratterizzata dalla continua ricerca stilistica e intellettuale. A tal riguardo va ricordato che Carrà vanta una caratteristica unica nel panorama artistico italiano; infatti, è stato l’unico artista ad aver partecipato da protagonista – anzi, addirittura da fondatore – ai due più importanti movimenti d’avanguardia sorti in Italia nel secolo XX: il futurismo e la metafisica. Negli anni Trenta, abbandonate da tempo le sperimentazioni avanguardistiche, Carrà dipingeva quadri che si potrebbero etichettare come realisti. Non va però dimenticato che per Carrà la pittura fu sempre “cosa mentale”; l’artista partiva sì dall’osservazione del reale, ma col fine di andare oltre la semplice imitazione per ascendere a un piano spirituale; nel far ciò si serviva unicamente dei mezzi che l’arte gli metteva a disposizione: la fantasia, l’immaginazione, le forme, i colori, le luci, le ombre e la geometria. Ed è proprio ciò che Carrà fece in Sintesi di una partita di calcio, in cui trattò un tema popolare con un linguaggio colto. Prima di occuparcene, immergiamoci per un momento nel clima politico, sportivo e culturale dell’Italia d’inizio anni Trenta.
La prima edizione dei mondiali di calcio – la competizione voluta dalla FIFA di Jules Rimet – fu organizzata nel 1930 in Uruguay e fu vinta dalla squadra di casa; il torneo si dimostrò un successo sebbene vi partecipassero solo tredici squadre, di cui soltanto quattro europee (Francia, Belgio, Romania e Jugoslavia). Nell’Italia di Mussolini, i vertici della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) compresero subito che una simile manifestazione sportiva poteva essere sfruttata a fini propagandistici dal regime; pertanto, convinsero la FIFA ad assegnare all’Italia l’organizzazione dell’edizione dei mondiali del 1934.
L’Italia aveva tutte le carte in regola per ospitare l’evento; in primo luogo perché sembrava un paese ordinato, laborioso, pacificato ed efficiente (almeno così lo presentava la propaganda di regime); in seconda battuta perché si stava dotando di alcuni degli stadi più belli d’Europa. Già da qualche anno, infatti, il regime stava cercando di trasformare il calcio in un grandioso spettacolo collettivo capace di agire sulle masse in termini di propaganda, d’integrazione sociale e di suggestione nazionalistica: per raggiungere tale obiettivo erano essenziali imponenti architetture sportive capaci di accogliere folle sempre più grandi. I mondiali di calcio davano ora alla FIGC la possibilità di estendere anche agli sportivi stranieri la propaganda fascista: l’Italia doveva sembrare a tutti un paese forte, efficiente, moderno e all’avanguardia. Tutto nei mondiali del 1934 fu organizzato nei minimi dettagli: dall’accoglienza delle squadre straniere all’ospitalità alberghiera, dalla rete dei trasporti alle agevolazioni per i giornalisti sportivi di tutto il mondo, dalle installazioni per garantire le radiocronache (in Italia e all’estero) alle riprese cinematografiche per mostrare a quante più persone le azioni principali degli incontri. Inoltre, la FIGC volle comunicare a tutti un senso di ordine, legalità, moralità e rifiuto dei favoritismi: non a caso le cronache del tempo, nel descrivere l’arrivo di Mussolini allo stadio, precisavano che acquistava il biglietto d’ingresso come tutti gli altri spettatori.
Per la propaganda fascista, la vittoria dell’Italia nei mondiali di calcio rappresentava la conferma che il Duce era riuscito a rigenerare gli italiani, a trasformarli in un popolo da temere e rispettare. In quest’ottica, l’abilità nel calcio degli azzurri faceva rivivere nel presente la tradizione competitiva e guerriera degli antichi romani; infatti, per il regime, lo sport che gli inglesi chiamavano football derivava dal calcio fiorentino del Rinascimento – gioco recuperato proprio in epoca fascista e tuttora in voga a Firenze – che a sua volta aveva le sue radici nell’harpastum, il violento gioco con la palla praticato dai legionari dell’antica Roma. Come questi ultimi furono capaci di conquistare un impero nell’antichità, così – si dava a intendere – avrebbero presto fatto i nuovi militari italiani sotto la guida di Mussolini. Non sorprende, pertanto, che la propaganda di regime presentasse i successi calcistici dell’Italia come anticipazioni di future vittorie politiche e militari; la Seconda Guerra Mondiale avrebbe dimostrato, drammaticamente, quanto questo sogno di grandezza fosse lontano dalla realtà. Ma ciò non ha rilevanza per noi ora; quel che qui importa, è che la vittoria ai mondiali del 1934 accrebbe il consenso nei confronti del fascismo tanto nel popolo come nelle élite (le cronache del tempo ci dicono che alle partite erano presenti i più bei nomi delle gerarchie politiche, dell’aristocrazia, dell’arte e della letteratura). Ai mondiali di calcio e alla vittoria italiana diedero ampia eco la stampa, i cinegiornali, la radio, ecc. Anche nelle arti figurative il calcio divenne molto presente sia al livello popolare (manifesti, vignette, francobolli, ecc.) sia su un piano più elevato, nel campo cioè della pittura e scultura da collezione o da museo, come dimostra Sintesi di una partita di calcio di Carrà.
Dalla seconda metà degli anni Venti il fascismo promosse la pratica e la rappresentazione dello sport; non a caso in quest’epoca vari artisti iniziarono a trattare il tema sportivo; ciò avveniva un po’ per intimo convincimento, un po’ per opportunismo: infatti, il sostegno delle istituzioni poteva aiutare nel trovare un acquirente come abbiamo visto nel post su Mario Moschi. Il quadro di Carrà, ad esempio, fu acquistato nel 1935 dal Governatore di Roma per la Galleria Mussolini, l’attuale Galleria d’Arte Moderna di Roma.

Carlo Carrà, Sintesi di una partita di calcio, 1934. Roma, Galleria d’Arte Moderna. Foto: PaviaFree.it
Si può accostare Sintesi di una partita di calcio al dipinto di Leonardo Dudreville analizzato in precedenza: anche qui un tema moderno come il calcio è trattato con un linguaggio ispirato alla tradizione. Tuttavia, nell’opera di Carrà non c’è niente del realismo piacevole, narrativo, quasi aneddotico, di Partita di calcio di Dudreville. Infatti, Carrà ha composto l’immagine seguendo una logica “costruttiva” piuttosto che imitativa; in sostanza, non si è proposto di riprodurre una scena reale (un’azione di gioco), ma ha voluto creare un’architettura equilibrata di forme che si contrappongono o si riecheggiano nello spazio (si veda, ad esempio, il gioco di parallelismi e convergenze creato dagli arti dei protagonisti del quadro). C’è un che di primitivo, di prerinascimentale in questo modo di comporre l’immagine. La superficie della tela è occupata in gran parte da cinque calciatori, tre in maglia azzurra – come quella della nazionale italiana – uno in casacca color vermiglio e uno con maglia rosso scuro, quasi viola; quattro di loro saltano per raggiungere il pallone in alto a sinistra, mentre il quinto osserva da terra. Il giocatore al centro è sicuramente un portiere perché indossa delle ginocchiere e tenta di raggiungere la sfera con la mano; ciò ci permette di affermare che i quattro calciatori si trovano all’interno di un’area di rigore, in prossimità della porta. A differenza di Dudreville, Carrà non ha descritto nel dettaglio l’ambiente, ma ha lasciato allo spettatore il compito di ricostruirlo con la sua immaginazione. In basso a sinistra una riga bianca diagonale richiama alla memoria uno degli elementi costitutivi di un terreno di gioco, le linee di demarcazione; in alto a destra una figura rettangolare allude alla porta: si noti l’estrema sintesi – niente più che quattro linee rette – con cui Carrà suggerisce questa componente essenziale di un campo di calcio. L’unico altro elemento oggettivo è la linea diagonale nella zona mediana, parallela a quella bianca in basso a sinistra, che divide il quadro in due aree cromaticamente distinte: in quella superiore domina l’azzurro, il colore del cielo, in quella inferiore – dove sta il campo di gioco – si alternano chiazze di viola, giallo, verde e marrone. Tornando ai calciatori, notiamo come i loro volti siano resi in modo sintetico e schematico, senza tratti individualizzanti, e come il modellato dei loro corpi sia solido, vigoroso, privo di orpelli inutili. Questi atleti possono anche essere stati ispirati dai protagonisti dei mondiali del 1934, ma hanno un qualcosa di arcaico, di primitivo. Infatti, dal punto di vista stilistico, il quadro rimanda a una cultura figurativa mediterranea, per meglio dire italiana, che ha le sue radici in un lontano passato. In sostanza, il football, che per i futuristi – e per il giovane Carrà – era un simbolo di modernità, diventa in Sintesi di una partita di calcio un gioco radicato nella storia nazionale grazie all’uso di un linguaggio pittorico volutamente ispirato alla tradizione figurativa italiana.
Su questo argomento si veda anche l’articolo che ho pubblicato su Gli Eroi del Calcio.
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